Se ricorderete in un precedente articolo, avevo detto che Pasquale Tridico ci avrebbe pettinato.
Beh…. non ci sono andato affatto lontano.
Con il messaggio numero n. 3495 del 14 Ottobre 2021 l’INPS è intervenuta con un’interpretazione restrittiva stabilendo che il mancato svolgimento dell’attività lavorativa rappresenta un elemento costitutivo del diritto alla prestazione assistenziale e non già una mera condizione di erogabilità della prestazione.
La conseguenza di una siffatta decisione ha una portata apocalittica.
D’ora avanti, secondo il nuovo orientamento applicativo dell’INPS, il beneficio non sarà più riconosciuto a quella persona con disabilità che svolge un’attività lavorativa idonea a produrre reddito.
Il requisito del mancato svolgimento dell’attività lavorativa secondo il messaggio n. 3043 del 2008 dell’INPS è soddisfatto anche nel caso di impiego presso Cooperative sociali o mediante convenzioni quadro.
Di fatto se non sconfessata questa linea lascia aperto uno spiraglio di luce.
Ma a quali categorie di persone con disabilità si va ad applicare la decisione dell’INPS?
Molti siti non specificano se la nuova circolare riguardi solo gli invalidi parziali o comprenda anche gli invalidi totali.
Invalidi parziali: un nuovo Apartheid
Andiamo a vedere cosa dicono le norme:
Al riguardo l’articolo 13 della legge n. 118 del 1971 istitutiva dell’assegno mensile di assistenza stabilisce che “Agli invalidi civili di età compresa fra il diciottesimo e il sessantaquattresimo anno nei cui confronti sia accertata una riduzione della capacità lavorativa, nella misura pari o superiore al 74 per cento, che non svolgono attività lavorativa e per il tempo in cui tale condizione sussiste, è concesso, a carico dello Stato ed erogato dall’INPS, un assegno mensile di euro 242,84 per tredici mensilità, con le stesse condizioni e modalità previste per l’assegnazione della pensione di cui all’articolo 12.“
Se andiamo a leggere invece l’articolo 12 viene stabilito che “Ai mutilati ed invalidi civili di età superiore agli anni 18, nei cui confronti, in sede di visita medico-sanitaria, sia accertata una totale inabilità lavorativa” viene riconosciuta la pensione di inabilità.. (OMISSIS)”.
Dunque stando così le cose sono colpiti dall’interpretazione novativa solamente gli invalidi parziali per i quali risulti l’attività lavorativa.
Viene pertanto a cadere il limite reddituale di 4.931 euro annui previsto dalla previgente disciplina come requisito per il mantenimento dell’assegno, per cui fino ad ora chi lavorava avrebbe visto decurtata la corresponsione dell’assegno fino all’escussione totale consistente nel raggiungimento del reddito massimo annuo ammesso dalla legge.
Invalidi parziali: un nuovo Apartheid
La nuova interpretazione si basa pertanto su una concezione assistenzialista della disabilità, sparisce il concetto di residua capacità lavorativa.
Tale misura consiste in un’abolizione de facto totale dell’assegno d’invalidità concesso agli invalidi parziali.
L’invalido con una residua capacità lavorativa, affetto da una patologia cronica non totalmente invalidante eviterà di richiedere l’assegno per non incorrere in difficoltà oggettive nella ricerca di un lavoro.
Al contrario, per una persona con una malattia gravemente invalidante l’assegno d’invalidità non sarà sufficiente trattandosi di un emolumento inidoneo “a soddisfare i bisogni primari della vita” come ha stabilito la Corte Costituzionale.
Ancora una volta chi ha un’invalidità parziale dal 74% al 99% finisce per essere cittadino di serie B.
A pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, mi verrebbe da dire che prima o poi il modo per assicurare l’aumento delle pensioni d’invalidità per gli invalidi totali dovevano trovarlo.
Lungi dal voler mettere in contrapposizione le due categorie, ma sappiamo tutti dove vanno a trovare i soldi quando ne hanno bisogno.
Invalidi parziali: un nuovo Apartheid
La decisione assunta dall’INPS apre ad un nuovo apartheid per le categorie fragili.
Ancora una volta, non si considera il lavoro come uno strumento socializzante indispensabile per il benessere psicofisico della persona.
Ancora una volta, si contrappone all’aspetto economico quello della salute, mettendoli uno contro l’altro.
In realtà il lavoro è salute, quantomeno lo è per quelle categorie di persone sempre più a rischio di esclusione sociale.
Tali politiche sono figlie di un tempo pandemico, generate da una sistematica violazione dei valori costituzionali, giustificate dal bene supremo della tutela della salute pubblica a scapito di quella individuale.